Onorevoli Colleghi! - Tra pochi procedimenti adottabili per riformare il sistema educativo esiste anche la pratica (che è, poi, un espediente) della «politica del gambero». Non si scorda facilmente la favola di Trilussa in cui il crostaceo bruno-verdastro, chiacchierando con un'ostrica «attaccata sullo stesso scojo», annuncia di voler andare «all'antra riva», ma «appena ch'ebbe fatto quarche metro» capisce che camminava a ritroso. È questo, pure, il destino di quei governanti che per modernizzare l'istruzione scolastica e la formazione professionale compiono notevoli salti all'indietro, raccattando schemi, formule e strumenti abbandonati o gettati da altri, nel passato, perché ritenuti inadeguati o inutili. Tale riflusso normativo, nello statu quo prius, è sotto gli occhi di tutti e viene percepito anche da osservatori non addetti ai lavori. Si tratta della restaurazione, di fatto, di una situazione che esisteva prima dell'ultimo decennio in cui iniziò la fase riformistica (non riformatrice) detta della «inversione alternativa», caratterizzata dalla robusta propensione e dal quotidiano appello allo scontro. L'adesione che si coglie tra gli esperti intorno all'opera di estirpatura delle aggiunte e delle dissipazioni, introdotte in precedenza nella scuola primaria, non occulta

 

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e non attenua la conservazione, nella medesima, di altri discutibili ed eccentrici innesti (è sufficiente ricordare l'anticipo della scolarità) e la riproposizione del vecchio assetto della scuola secondaria di primo e di secondo grado (basta menzionare il ritorno della visione scuola-centrica). Per capire le motivazioni di questo andamento involutivo occorre procedere con ordine.
      In questo incauto arretramento il decisore politico è animato da un duplice proposito sbagliato: marcare una «discontinuità» con le esperienze valide realizzate antecedentemente e prefigurare un «cambiamento» senza una strategia di sviluppo.

1. La discontinuità che irrompe.

      L'attuale Governo è caduto nel primo errore (segnare una discontinuità) quando ha rinunciato a considerare gli elementi positivi e innovativi della legge n. 53 del 2003. Se il Governo di centrodestra aveva iniziato la propria attività, in questo campo, scandendo il motto «punto e a capo», attirandosi talune reprimende, il Governo di centrosinistra non solo ha condiviso questo proponimento, ma è andato oltre capovolgendo la direzione di marcia (nonostante le reiterate smentite, non richieste, che confermano la veridicità dell'operazione) dell'iniziativa riformatrice proprio sulla linea di maggiore delicatezza e rilevanza: l'organizzazione strutturale e funzionale dell'istituzione preposta all'istruzione e alla formazione. Non si è trattato solo dell'abbandono del patrimonio di ricerche e di studi accumulato con faticosa dedizione; del misconoscimento dei risultati proficui di numerose sperimentazioni autonome e assistite, attuate dagli istituti o dai centri di avanguardia; dell'archiviazione delle proposte ancora valide elaborate dalla Conferenza nazionale sulla scuola, ma, soprattutto, si tratta del ripristino di un ordine non più rispondente alle istanze del tempo presente. Si dice che sia stato adoperato un «cacciavite» per smontare prudentemente le parti dell'impianto ritenute obsolete, incongrue, stravaganti, ma è una metafora eufemistica inventata per attenuare l'asprezza di interventi assai più pesanti. Studiando con scrupolo e con spassionatezza sia la legge 27 dicembre 2006, n. 296 (articolo 1, commi 601-636), sia il decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007, n. 40 (articolo 13), si evince che l'istruzione (alias scuola perché l'adempimento dell'obbligo «deve consentire (...) l'acquisizione dei saperi e delle competenze previsti dai curricola relativi ai primi due anni degli istituti di istruzione secondaria superiore» emarginando, così, i corsi delle agenzie della formazione professionale regionale) è obbligatoria sino al sedicesimo anno di età; che resta un cosiddetto «obbligo formativo» sino al diciottesimo anno di età; che l'accesso al lavoro è elevato al sedicesimo anno di età; che quest'ultima possibilità può concretizzarsi anche a prescindere dall'ottenimento di una qualifica; che eventuali percorsi e progetti concordati tra Ministero della pubblica istruzione e singole regioni sono attivati al fine di prevenire e di contrastare la dispersione e favorire il successo (ma non di partecipare all'assolvimento) dell'obbligo di istruzione; che le «strutture formative» concorrenti alla realizzazione dei percorsi e dei progetti sono selezionate e inserite in un apposito elenco; che le sperimentazioni avviate d'intesa tra il Ministero della pubblica istruzione e le regioni proseguono fino alla messa a regime delle nuove disposizioni (dopo della quale vengono sospese); che nel ciclo d'istruzione secondaria sono riportati gli attuali istituti tecnici e professionali con la conseguente soppressione dei licei economico e tecnologico, previsti dalla legge n. 53 del 2003; che nel sopravvissuto «sistema dell'istruzione e formazione professionale» rimane solo la formazione professionale; che possono essere costituiti, in ambito provinciale o sub-provinciale, dei «poli tecnico-professionali», di natura consortile, delle strutture formative (non tutte, ovviamente) e degli istituti tecnici superiori (ITS); che si demanda alla potestà regolamentativa del Ministro della pubblica istruzione un

 

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ventaglio ampio di materie riguardanti la riduzione degli indirizzi, la scansione temporale dei percorsi, la previsione del monte ore annuale, la riorganizzazione delle discipline, il potenziamento delle attività laboratoriali, l'orientamento agli studi universitari; che il Ministro, con appositi regolamenti, provvede alla revisione dei profili educativi e delle indicazioni nazionali; che si istituiscono sezioni speciali aggregate alla scuola d'infanzia attraverso un progetto nazionale d'innovazione ordinamentale, per bambini dai due ai tre anni di età, anticipando in questo modo, ulteriormente, l'ingresso nella stessa (e surrogando gli asili nido), allo scopo di «favorire una continuità del processo formativo lungo l'asse cronologico 0-6 anni di età» (che cosa voglia significare la dizione «processo formativo» per i bambini di due anni è tutto da scoprire). Questa non è la «politica del cacciavite», ma è la «politica del maglio», che battendo a più riprese, con la sua mazza, sul sistema educativo (ancora caldo e malleabile a cagione della recente riforma) lo risagoma dandogli una foggia incerta e contorta. Infatti, al di là delle citate trasformazioni (molte altre non sono, qui, menzionate pur essendo importanti) il focus (sia nel senso di centro di un'attività e di un interesse, sia nel senso di un focolaio di degenerazione) del dibattito e del contrasto attiene (come già segnalato) alla natura e all'ordinamento del modello che s'intende realizzare. Dai provvedimenti approvati dal Parlamento si palesa chiara la scelta del «modello integrato». Il significato dell'attributo «integrato» non è del tutto univoco nell'interpretazione e appropriato nell'attribuzione. Con tale qualifica si afferma, in sostanza, che i corsi professionali regionali trovano la loro ragione di esistenza solo nel tentativo di integrare le prestazioni (ritenute superiori) del comparto scolastico. Si è di fronte a una deformazione di panscolasticismo in cui si marginalizza la formazione professionale regionale; s'irrigidisce la struttura rendendola inaccessibile ed escludente; s'incrementano la mortalità e la dispersione; si procede in controtendenza con le soluzioni perseguite in ambito europeo. Chi pensa di aver corretto, con alcuni emendamenti al citato decreto-legge n. 7 del 2007, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 40 del 2007, questa impostazione è un povero illuso. Sono ininfluenti sia la cancellazione del trattino nella denominazione degli istituti tecnici e professionali ripristinando la «e» tra le due parole «tecnici» e «professionali», sia la conferma del comma 1 dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 226 del 2005 (secondo ciclo). Per due semplici ragioni: perché il trattino ricompare puntuale nel comma 1-quinquies dell'articolo 13 del citato decreto-legge n. 7 del 2007 «(...) raccordi tra percorsi degli istituti tecnico-professionali»); perché l'appartenenza degli istituti tecnici e professionali al «sistema dell'istruzione secondaria superiore» svuota di contenuto il sistema dell'istruzione e formazione professionale dove rimangono solo i corsi gestiti dalle regioni. Pertanto il «modello binario» (non duale) concepito dalla legge n. 53 del 2003, articolato in due «canali» paralleli, graduati, interattivi e fondato su una specifica identità di questi ultimi (due canali) e sulla pari dignità dei medesimi in quanto progettati sulla base di uguali criteri di continuità, di complementarietà e di apertura fino ai gradi più elevati, non è assolutamente salvato nel testo definitivo della normativa recentemente emanata (citato decreto-legge n. 7 del 2007, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 40 del 2007). L'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro (UDC) non può riconoscersi in questo pasticcio, né si può andare avanti con una «gamba zoppa», come risulta essere quella dell'istruzione e formazione professionale che comprende la sola formazione professionale regionale, peraltro non abilitata all'assolvimento dell'obbligo di istruzione.

2. La strategia che langue.

      L'attuale Governo è caduto nel secondo errore (avanzare senza strategia) quando ha rinunciato a riflettere sul «perché»

 

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dell'ammodernamento. Solo «Chi ha un perché - osserva Friedrich Nietzsche - può sopportare tutti i come». Gettarsi a capofitto sul «come» senza previamente condurre un'analisi rigorosa della società civile e della comunità di istruzione e di formazione, scegliere un metodo adeguato di lavoro e disegnare una prospettiva di crescita del sistema educativo proiettato nel futuro, rischia di portare a soluzioni contraddittorie se non proprio nocive.
      Innanzitutto, occorre partire da un giudizio sereno e attendibile sulla società e sulla scuola, oggi; un giudizio che deriva da una diagnosi attenta dei fenomeni in atto (con le loro luci e con le loro ombre) dai quali dipendono le determinazioni del legislatore. Non si può prescindere, da un lato, da una valutazione delle turbolenze e delle schiarite di una società scossa da impetuose emergenze e da fiduciose riprese, ma soprattutto da impulsi e vocazioni provenienti dal profondo della rivoluzione del post-moderno e, da un altro lato, da una ricognizione attendibile della condizione dell'istituzione preposta all'insegnamento-apprendimento, bisognevole di prudenti innesti e di misurate potature al fine di renderla capace di rispondere alla domanda di un'educazione più ricca generata dalla mobilitazione cognitiva del corpo sociale sempre più sedotto e condizionato dalla «società conoscitiva»; dalle conquiste recenti della psicopedagogia che suggerisce di valorizzare la mente disciplinata, sintetica, creativa; dall'estensione della partecipazione alla vita democratica supportata da una coscienza civile più matura; dalle richieste assillanti del mondo del lavoro le quali postulano l'offerta di una manodopera avente un'intelligenza aperta e una professionalità resiliente. Per affrontare queste sfide, il sistema educativo, in generale, e i processi di insegnamento-apprendimento, in particolare, dovranno risolvere in fretta le difficoltà e le contraddizioni che li assillano rimuovendo le cause più macroscopiche.
      Insomma, il rapporto (non di subordinazione e non di assimilazione) tra società e scuola non può prescindere dalla presa d'atto della mutazione radicale del quadrante sociale, economico e politico del globo in cui viene ricollocato il Paese e dall'ammissione che «la ricreazione è finita» per l'istruzione e la formazione sovraccaricate di molteplici incombenze convergenti verso la primaria funzione di trasmissione della cultura e di elaborazione della stessa. È in questo contesto che va letto il comportamento dell'educando, soggetto a tante influenze, a volte, devastanti. L'adolescenza e l'infanzia sono età senza un domani? Questo interrogativo, del neuropsichiatra Giovanni Bollea, induce a una severa riflessione che si può svolgere seguendo le sue orme. In un articolo pubblicato sul quotidiano «La Repubblica», del 6 aprile 2007, l'autorevole scienziato, per spiegare la condotta attuale, soprattutto degli adolescenti, adduce una ragione antropologica: una preoccupante ascesa di anticipato «adultismo» che spaventa. Se questo fenomeno non è accompagnato dal «filtro di una giusta maturità critica» ed è avulso da un «minimo di informazione etico-culturale, di una igiene mentale controllata e vista nell'uso (...) di molte modalità di vivere e conoscere, saltano inesorabilmente tutte le logiche e tutti i freni inibitori. Freni necessari alla formazione di una realtà affettiva e caratteriale più organizzata». La responsabilità ricade sul frastuono di comunicazioni, visioni, sensazioni che irrompendo, dall'esterno della famiglia e della scuola, senza le auspicabili «censure», trasformano gli adolescenti in adulti. Alla scuola, pertanto, compete l'obbligo di educare gli alunni a difendersi dagli input negativi adeguando, a tale scopo, i suoi ordinamenti e i suoi curricoli.
      Inoltre, occorre rispettare dei criteri procedurali: un metodo di confronto politico, legislativo e progettuale da tutti caldeggiato (compreso il Ministro della pubblica istruzione) e da molti ignorato, tacitamente od occultamente. Nonostante la reiterata predicazione non si coglie la disponibilità sincera ad accordare, a contemperare ed unire le varie posizioni (a conciliare) attraverso il dialogo (scambio di idee e incontro di opinioni nella ricerca di una sintesi delle molteplicità
 

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discordi); la concertazione (intesa equilibrata e armonica tra più voci); la mediazione (composizione di controversie e conseguimento di soluzioni). Non solo, ma sembra diventi sempre più difficile la partecipazione alla stesura dei programmi, alla definizione delle decisioni, all'esercizio del governo. Un vulnus mortificante alla partecipazione è inferto dalla espropriazione del Parlamento delle sue funzioni e delle prerogative affidategli dalla Costituzione. Si assiste alla perdita di centralità del Parlamento che non è più la sede principale del dibattito, delle intese e delle determinazioni, le quali vengono spesso concepite altrove, stravolgendo, così, le regole della vita democratica. È necessario tenere ben distinti, in proposito, due ruoli: da un lato, quello del titolare della competenza politica (Ministro, legislatore eccetera), da un altro lato, quello del titolare della competenza tecnica o amministrativa. Il primo ha il dovere di ascoltare attentamente tutte le opinioni, frutto di scienza e di esperienza; di vagliare le proposte per assodarne il grado di saggezza, di misura e di accoglienza nonché di verificarne la compatibilità con gli impegni assunti e con le promesse fatte all'elettorato; di dettare le traiettorie generali di lavoro da cui nessuno può discostarsi; di apprezzare il servizio dei collaboratori valorizzando le doti professionali; di pretendere lealtà, sincerità e laboriosità senza emarginare o sostituire coloro che appartengono a uno schieramento diverso e senza privilegiare coloro che si «stendono a tappetino». Il secondo ha il dovere, restando nell'ambito delle proprie perizie, di studiare a fondo le questioni, con tutte le loro implicazioni; di fornire un'informazione oggettiva circa le situazioni e le condizioni del sistema educativo; di offrire una garanzia giuridica, una tutela sociale, una riuscita operativa delle disposizioni impartite; di attuare senza indugio le direttive che vengono consegnate; di rappresentare le conseguenze negative di eventuali operazioni, senza il timore di suscitare un disappunto; di cooperare con discrezione e con dignità alla preparazione dei «materiali» utili al titolare della competenza politica perché faccia in piena coscienza e libertà le proprie scelte. Purtroppo, tali criteri metodologici non solo vengono spesso elusi, ma vengono persino offesi da una condotta, a dir poco, scorretta dei detentori della potestà politica e governativa. Infatti, al di là della mancanza di dialogo, di concertazione, di mediazione e dello «svuotamento» delle facoltà del Parlamento, ridotto a essere un semplice notaio di atti «preconfezionati», si denunciano due gravi anomalie: la prima riguarda la sovrapposizione di scopi e di compiti tra piani politici, tecnici e amministrativi; la seconda riguarda l'apprestamento di gruppi e di commissioni composti da soggetti scelti in base all'appartenenza di partito o, peggio, all'obbedienza presunta e dotati di una scarsa preparazione e di una debole esperienza in materia, nonché portatori di convenienze e di interessi propri di centri culturali e di imprese economiche.
      Infine, occorre coltivare una visione prospettica in grado di dare un senso alle idee e alle opere di istruzione e di formazione nonché di assegnare una coerenza ai processi di insegnamento-apprendimento. Il tutto sinteticamente si riassume in una domanda: «Che cosa significa educare per il futuro?». A questo interrogativo ha dato una risposta convincente, alcuni decenni or sono, Jerome S. Bruner spiegando tre postulati riconducibili al «compito problematico» (trasformare le difficoltà nella ricerca e nello sviluppo di problemi, senza privilegiare l'adempimento delle attività ordinarie che possono essere svolte, con grande precisione, dai mezzi meccanici ed elettronici); al «compito critico» (abilitare all'espletamento di servizi che non si possono prevedere evitando che l'interdipendenza con le richieste tecnologiche non sterilizzi i sentimenti); al «compito artistico» (produrre l'arte in ogni sua forma al di là della necessità adattiva per trovare un'espressione all'intuizione dell'uomo).
      Questi tre aspetti dell'attività umana rappresentano la capacità di procedere
 

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verso il nuovo con cuore antico. L'antico non implica l'idea del vecchio nel senso di decadente, di superato, di inutilizzabile. Tra gli orientamenti antichi che conservano intatte le potenzialità e che rivestono viva attualità va annoverata la pedagogia del risveglio, della creatività, della cooperazione. Il centro delle cose antiche indispensabile per guidare giudiziosamente la civiltà verso fini validi e utili è costituito dalla convergenza e dalla concentrazione degli sforzi rivolti alla maturazione di una «coscienza illuminata», grazie alla quale si possa verificare ciò che accade nella società, affrancarsi dalle fascinazioni contrarie al bene universale, dirigersi verso traguardi di piena civilizzazione; alla maturazione di un «pensiero alternativo» grazie al quale si imparano a comprendere in profondità il moto degli eventi e le molteplici possibilità (quelle che si realizzeranno, quelle che si estinguono, quelle che si avvalgono dell'intervento dell'uomo); alla maturazione di una «qualità della vita» che pone l'educatore di fronte alla responsabilità di «insegnare a essere». Il nuovo di cui abbisogna, invece, il sistema educativo, oggi e domani, in Italia va oltre alla scolarizzazione di massa e ai suoi capisaldi (uguaglianza delle opportunità, riscatto sociale, promovimento della persona, unitarietà dell'impianto, parzialmente realizzati e parzialmente ancora fondati) e respinge il «richiamo di Scilla e Cariddi». Infatti, il processo innovatore è spesso sedotto da due contrapposte concezioni (che sono le due derive): da una concezione «dirigistica» e da una concezione «liberistica» dell'istruzione e della formazione. La prima propugna un sistema educativo incentrato sull'autorità dello Stato che direttamente stabilisce come debba strutturarsi l'amministrazione e che prescrive, quasi nel dettaglio, quali debbano essere le finalità, gli obiettivi, gli ordinamenti e i curricoli di ogni istituzione. La seconda sostiene un sistema educativo incentrato sull'articolazione autonomistica che consente alle unità periferiche dell'istituzione di autogovernarsi. Nella prima concezione, al centro si situano la scuola e il posto di lavoro, che incarnano il comune desiderio di sicurezza e di stabilità; nella seconda concezione, al centro si collocano l'individuo e la famiglia che incarnano la voglia diffusa di diversificazione e di competizione. Da una parte si scorgono i resti di un impianto napoleonico ripiegato verso l'egemonia del «pubblico» e la garanzia dell'omogeneità; da un'altra parte si notano i prestiti di un assetto anglosassone rivolto verso l'esposizione del «privato» e la sfida del mercato. Queste due concezioni non esistono più allo stato puro in nessuno dei Paesi occidentali. Non è, comunque, utile e vantaggioso - ai fini della costruzione di una «ipotesi futura» - attardarsi nella ricerca di eventuali «venature» di dirigismo o di liberismo infiltrate nei provvedimenti più recenti. Va, piuttosto, tenuto in evidenza che le due concezioni sono state ampiamente riviste e corrette proprio là dove sono nate: in Francia, dagli anni '80 del secolo scorso e sulla scorta della Loi d'orientation sur l'éducation (1989) si è dato inizio a una rilevante opera di decentralizzazione delle responsabilità coinvolgendo gli organismi territoriali (regioni, dipartimenti, comuni) nel governo del sistema di istruzione e di formazione, in materia di funzionamento degli istituti e di pianificazione dei bisogni; in Gran Bretagna (Inghilterra, Galles, Scozia) il pilastro della decentralizzazione nella gestione, pur resistendo, è stato mitigato nel suo raggio di azione e nella forza delle sue funzioni attraverso un intervento degli organi centrali dello Stato, i quali si sono appropriati del controllo sui contenuti dell'insegnamento-apprendimento (obbligo per tutte le scuole con finanziamenti pubblici di adottare il piano del national curriculum stabilito a livello nazionale) e si sono attivati per instaurare un nuovo equilibrio tra poteri centrali e locali mediante una redifinizione delle Local Education Authorities (LEAs) con le riforme dell'ultimo ventennio (Education Reform Act, 1988 ed Education Act, 1993). Si deve cercare allora quel «passaggio a nord-ovest» di una via originale e breve che consenta di raggiungere il continente dell'istruzione e della formazione nella sua
 

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nobile missione. Questo è lo snodo autentico e dirimente (ma è anche la meta) di ogni proposta orientata ad accordare l'unitarietà strutturale con la differenziazione funzionale, il programma nazionale con la programmazione locale, la solidità culturale con la specificità professionale, l'appartenenza universale con l'identità soggettiva, e così via.
      Si tratta di mettere in campo un'ipotesi che come le altre due è certamente rinnovatrice, ma diversamente dalle altre due (dirigismo e liberismo) è anche pienamente radicata nei valori della civilizzazione, della tolleranza, della fraternità, dell'interiorità, della ragione, della carità, della benevolenza e dell'umanità in cui tutti si possono riconoscere; un'ipotesi che non risponde alle logiche del collettivismo e dell'individualismo e che tende, invece, ad essere animata da un principio che, approssimativamente, si potrebbe denominare «solidaristico». È risaputo che la solidarietà (soprattutto quando viene associata alla pedagogia) suscita in alcuni studiosi un sorriso di compatimento in quanto viene dagli stessi relegata nei ristretti campi del diritto, della sociologia, della politica. Si insiste, al contrario, perché la «pedagogia della solidarietà», nella sua accezione più estensiva, venga considerata la «pietra scartata dai costruttori» capace di diventare «testata d'angolo» dell'ipotesi di rinnovamento del sistema educativo italiano. Infatti, la concezione solidaristica, alla quale si richiamano molti «filosofi sociali», considera l'uomo un «tutto» autonomo che pur non essendo ordinato a un «tutto creato», di cui è parte, è aperto al vero e al bene. Per arricchirsi della verità e dell'onestà egli deve comunicare con i suoi simili. I valori comuni che può, così, conseguire creano una «struttura interna» della vita sociale. Le relazioni reciproche che legano le persone non intaccano la singolarità e l'indipendenza di ciascuna. Non solo, ma le stesse, poiché vivono nello spazio e nel tempo, esigono di avere una «organizzazione esterna» (società naturali e società libere) al fine di raggiungere ordinatamente i loro scopi. È superfluo rilevare che i fili, raccordanti i vari soggetti, hanno una natura solidaristica e che questa connotazione vale anche per il sistema di istruzione e di formazione. Infatti, la solidarietà è la concordia perfetta, con altri, nel pensiero e nell'azione; è la condivisione di intenti, di finalità e di impegni assunti insieme; la collaborazione a favore di un'opera promossa da altri; è la comunanza di iniziative fra i componenti di una stessa comunità.
      Tutte queste caratteristiche (concordia, condivisione, collaborazione, comunanza) che si colgono nei rapporti tra i protagonisti (alunni, docenti, dirigenti eccetera) dell'intrapresa educativa, accreditano l'idea di una «pedagogia della solidarietà» e sono (se unite insieme) la motrice di un treno dell'insegnamento-apprendimento, lungo un viaggio che può essere ripartito in quattro tratte.
      La prima tratta, della «flessibilità», attiene all'anima dell'istruzione e della formazione, le quali senza di essa diventerebbero fossili, belle a vedersi, ma estranee alla contemporaneità. La flessibilità di un impianto istituzionale e organizzativo è la capacità di adeguarsi alle più varie situazioni, di dimostrarsi sensibile alle diverse evenienze, di rendersi docile a ogni mutazione. Nel comparto dell'istruzione e della formazione, la flessibilità comporta la declinazione di tutte le scelte in modo che corrispondano alle aspettative sia della società sia dell'utenza e la coniugazione delle proposte di miglioramento ordinamentale e curricolare con le regole dell'ottimizzazione del servizio. In ogni riforma la flessibilità dovrebbe essere garantita dalla stesura di piani di studio nazionali contenenti orari settimanali minimi e massimi e un numero di discipline facoltative, opzionali o integrative da parte delle unità periferiche; dall'elencazione di obiettivi prescrittivi e indicativi, tali da favorire la discrezionalità dei docenti; dall'apprestamento di programmi essenziali per ambito o disciplina, facilmente completabili con l'apporto del collegio dei docenti; dal contenimento del centralismo statuale in nome dell'autonomia educativa e didattica; dall'allestimento di pochi indirizzi
 

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di pari dignità culturale (unitarietà) ma di diversa conformazione (differenziazione); dall'assenza di scansioni o di sbarramenti interni biennali rigidi e soprattutto dalla costruzione di un «doppio canale», vera e radicale rivoluzione copernicana che mette in secondo piano tutte le altre innovazioni.
      La seconda tratta, della «sussidiarietà», attiene al principio cardine del magistero sociale della Chiesa cattolica in base al quale «né lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all'iniziativa e alla responsabilità delle persone e delle comunità intermedie, in quei settori in cui essi possono agire, né distruggere lo spazio necessario della loro libertà». Questa dichiarazione della Sacra congregazione per la dottrina della fede (1986), viene da lontano, e precisamente dalle encicliche Quadragesimo Anno (1931) e Pacem in terris (1963), e trova una puntuale esplicitazione nell'enciclica Centesimus annus (1991), nella quale si precisa che altro è il compito dello Stato: sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico; creare le condizioni che assicurino occasioni di lavoro; intervenire quando situazioni particolari di monopolio creano remore e ostacoli per lo sviluppo; svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando chi ha la responsabilità di operare è inadeguato al suo compito. È evidente che qualsivoglia progetto di riforma del sistema educativo condivide e applica il principio di sussidiarietà qualora riconosca la parità giuridica ed economica tra le istituzioni statali e non statali e indirizzi il cammino della devoluzione dei poteri nel campo dell'istruzione e della formazione affinché non pervenga a un neocentralismo periferico a danno dell'autonomia delle altre istituzioni.
      La terza tratta, della «quotabilità», attiene al concetto di misurazione e, quindi, di verifica e di valutazione a cui il sistema educativo deve essere sottoposto per appurare l'efficacia e l'efficienza delle prestazioni. È chiaro che viene escluso ogni riferimento a significati estranei alle performance dell'istruzione e della formazione. Con l'attivazione dell'autonomia diventa indispensabile la costruzione di un servizio che sia in grado di vagliare, stimare e giudicare la qualità del sistema, in modo distinto sia dalla valutazione d'istituto e degli esiti del piano dell'offerta formativa sia dalla valutazione dei singoli allievi e del rendimento.
      La quarta tratta, della «duratività» attiene alla previsione, molto fondata e quasi certa, di istruzione e di formazione lungo tutto l'arco della vita. È questa l'idea fondamentale della Commissione europea. In un quadro in costante evoluzione - caratterizzato dalla libera circolazione della manodopera, dall'innovazione sia nell'ambito della produzione e della commercializzazione sia nell'ambito dell'organizzazione aziendale, e dalle trasformazioni del mercato del lavoro - l'auspicio e la congettura di una istruzione e formazione permanenti sono, ormai, nelle possibilità e nei fatti.

3. Il progetto che eccelle.

      «Se vuoi che il tuo solco sia dritto, attacca il tuo aratro ad una stella». L'«idea stellare» che guida la «navigazione» per «l'alto mare» della piccola imbarcazione del sistema educativo verso l'istruzione e la formazione richiama la duplice e generale missione dello stesso, costituita dalla crescita del potere mentale (dominio di un campo di conoscenze) e del potere morale (assunzione di un comportamento autonomo e responsabile), facendo di ambedue l'elemento privilegiato della maturità e della competenza cognitiva ed etica. Si sa che l'elaborazione e l'applicazione di un progetto di istruzione e di formazione per gli allievi del secolo appena iniziato richiedono uno sforzo faticoso che si sviluppa su quattro piani, illuminati dall'«idea stellare».
      Il primo piano ospita un duplice mandato da assolvere, costituito dall'accesso alla cultura generale e all'incremento delle attitudini operative. La cultura generale, «punto di passaggio necessario» e base solida di natura letteraria, filosofica, storica e

 

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scientifica, è un veicolo di comprensione del mondo che si sostanzia di tre capacità da rinvigorire: la capacità di cogliere il significato dei fatti; la capacità di analizzare il mondo in cui le cose si realizzano e si conservano, mediante la creatività; la capacità di giudicare e di decidere, che presuppone il possesso di criteri di discernimento e la memoria del passato con la percezione del futuro. Le attitudini operative poggiano su alcune idoneità richieste (padronanza delle conoscenze basilari, fruizione della maestria tecnica, godimento delle disposizioni relazionali) e sulle modalità di ottenimento delle medesime, attraverso una via moderna di accostamento che esige una rete di cooperazione nell'insegnamento-apprendimento.
      Il secondo piano include un'ulteriore integrazione dell'aspetto progettuale con l'aggiunta di tre convincimenti: la possibilità che il sistema educativo possa diventare un fattore decisivo dello sviluppo economico-sociale attraverso la preparazione professionale qualificata e creativa, l'avanzamento delle conoscenze in un ambiente tutelato e la promozione della convivenza radicata nella propria cultura e aperta alle altre; la propagazione dei valori fondativi dell'interazione della comunicazione e della sapienza; la capacità di soddisfare l'esigenza di compiere esperienze cognitive e relazionali significative, di esplicare le proprie inclinazioni e vocazioni, di affermare la propria identità personale, di favorire l'elaborazione delle proprie scelte etiche, di pervenire all'appropriazione dei canoni di analisi e di giudizio, nonché di ottenere l'adeguato supporto all'inserimento nella vita lavorativa.
      Il terzo piano accoglie l'affidabilità quale antidoto al turbamento e all'ansia che serpeggiano nel pianeta dell'istruzione e della formazione di fronte ai processi di innovazione. È urgente non solo riflettere, ma agire in modo coerente, con disposizioni che infondano sentimenti di sicurezza, di tranquillità e di fiducia. È chiaro che l'affidabilità del progetto si situa nella sfera della piena razionalità, dove l'arcano, l'imponderabile e l'inesplicabile sono quasi inesistenti e dove è richiesto un semplice atto di fiducia sulle assicurazioni, peraltro coerenti e giustificate, che vengono fornite. Non si escludono l'imprevisto e il fortuito, ma si sa che essi possono essere spiegati ed emendati. Il sistema educativo, perciò, entra legittimamente nel novero delle «cose» imperfette, ma perfettibili, sulle quali poter (o non poter) contare.
      Il quarto piano custodisce il discernimento «(...) che è prosaico ma severo, che è duro e penoso ma proficuo" (Benedetto Croce); il discernimento che distingue nozioni e princìpi, mediante la «virtù dell'acume», e percorre la pista della complessità, la quale va oltre l'elencazione dei singoli elementi e la mera casualità deterministica assumendo una visuale sistemica dove si colgono e si ritraggono degli insiemi interconnessi, e batte la pista dell'originalità che caratterizza la progettazione in campo educativo nel segno dell'irripetibilità, dell'autenticità e del prestigio per cui il disegno è immediatamente riconoscibile.
      Il progetto che emerge nei suoi contorni e che tende a toccare un alto grado di eccellenza, per qualità e per dignità, deve cimentarsi e confrontarsi con i presupposti che sono suscitatori dell'azione pratica. Il sistema educativo si avvale di una mappa di regole che diventa il fulcro su cui fare leva per sollevare le sorti dell'insegnamento-apprendimento. L'itinerario che porta a guadagnare questo traguardo incrocia due avvertenze. Primariamente occorre rendere nitida la visione di quadro dentro il quale si compiono delle specifiche opzioni. Ciò comporta, innanzitutto, ammettere che l'educazione (non le tre «C» di Luigi Berlinguer o le tre «I» di Silvio Berlusconi) rappresenta l'oggetto di una ragguardevole prospettiva di istruzione e di formazione, ravvisabile e ripartibile in oggetto gnoseologico (in quanto raggiunto con l'intelletto o intelligibile) e in oggetto prassico (in quanto radicato nei valori o avvalorabile). Scrutando il caleidoscopio dei significati e passando oltre l'ottica etimologica, teleologica e funzionale, con cui l'educazione è descritta e intesa, essa può essere considerata quel processo di crescita intenzionale e di sviluppo
 

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indotto che, in qualsiasi tempo e luogo, si svolge al fine di rendere cosciente l'educando di come «l'uom s'etterna» attraverso la pratica della libertà che è intrinseca alla dinamica e costitutiva dell'atto dell'educare. Ciò comporta, inoltre, sia un chiarimento da introdurre nei riguardi della persona, «ente che si esprime a se stesso nell'atto in cui intende, vuole e ama», in quanto l'istruzione e la formazione sono confortate e condotte da una precisa concezione del soggetto che apprende (non si sfugge da una connotazione tridimensionale di mouneriana memoria), sia un'esplorazione da condurre nei riguardi del contesto, concepito come l'insieme delle circostanze, dei fattori, delle ideologie, dei personaggi che favoriscono la gemmazione di determinati fenomeni (non ultimi la globalizzazione e la informatizzazione), i quali pesano come un macigno sul senso dell'intero sistema educativo.
      Secondariamente, occorre - per superare gli ostacoli che si frappongono al progresso del sapere e all'incremento dei saperi - essere in grado di pilotare il cambiamento nell'intricata rete di regole pedagogiche possibili. Per non rischiare di ripetere la «fatica di Sisifo» diventa necessario accantonare la contrapposizione tra programmatisti e curricolaristi (quando si apprende da una valutazione scientifica che il curricolo interseca un programma nazionale duttile e una programmazione educativa circoscritta) e assumere il curricolo quale «progettazione e attuazione di un percorso formativo scolastico a livello di classe e di istituto»; abbandonare ogni reticenza in un ancoraggio del sistema educativo italiano all'Europa e ricorrere a due princìpi di intelligibilità adatti a spiegare la portata di questa operazione, ovvero il principio dialogico, che implica che due o più logiche differenti siano legate in una unità, e il principio ricorsivo, che implica l'ammissione di cicli rigeneratori in cui ogni momento è al contempo prodotto e produttore (si tratta, in sostanza, di transitare attraverso tre livelli di confronto: il livello dei parametri, il livello dei programmi e il livello degli obiettivi); superare le funzioni catechetica, impiegatizia, trasmettitiva e socializzante della docenza per attribuire ad essa la nozione di professione che si addice in quanto le prestazioni della stessa derivano da un sapere specialistico, prevedono la certificazione del medesimo secondo norme d'ingresso alla carriera e standard di efficacia e di efficienza, valorizzano l'autonomia riferita all'esercizio del proprio lavoro e agli organismi rappresentativi e aderiscono a un protocollo di diritti e di doveri che indirizzano le attività.
      Il progetto, infine, non esiste se non si materializza in un organismo avente una forma stabile, un assetto concreto e un composto elementare che lo reificano. La forma, l'assetto e il composto sono dotati di proprietà, di influenze e di leggi destinate a uno specifico scopo e sono penetrate profondamente nella vita dell'istituzione preposta all'istruzione e alla formazione. Affiorano alla superficie del dibattito culturale e politico due schemi ufficiali del ciclo secondario, a cui si è fatto cenno in precedenza: il primo, definito «integrato» (introdotto dalla legge n. 30 del 2000, ora abrogata), prevede la subalternità della formazione professionale regionale rispetto ai percorsi scolastici; il secondo, definito «binario» (introdotto dalla legge n. 53 del 2003) delinea due «canali» collaterali, graduati e interattivi il cui carattere è facilmente individuabile mediante quattro attenzioni. Evidentemente è questo lo schema che si predilige, il quale, come già dimostrato, sta per essere profondamente devastato dai provvedimenti dell'attuale Governo. Comunque la prima attenzione è per la «fondazione» teorica dei due «canali» (istruzione liceale e formazione tecnico-professionale) che trovano nel concetto di istruzione e nel concetto di formazione le due sorgenti ispiratrici, i due cardini regolatori e le due motivazioni qualificanti. L'esistenza dei due percorsi non richiede che nel primo si stabilisca di realizzare solo le possibilità dell'intelletto e nel secondo solo le possibilità della mano. I due aspetti non sono separabili, perché non si
 

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dà educazione al conoscere senza educazione all'operare e viceversa. La seconda attenzione è per l'«equivalenza» dei percorsi. Nei due «canali», con significative modifiche, dovrebbe essere riversato tutto ciò che risulta conveniente, redditizio e riuscito del regime attuale. Non si tratta di un semplice riciclaggio di cose passate o presenti, ma piuttosto di una ricostruzione complessiva della tradizione che, per essere ambientata nel futuro, dovrebbe prefissare un transito, per il ciclo secondario, nel percorso di istruzione «liceale» di un numero essenziale di indirizzi liceali e nel percorso di formazione tecnico-professionale, della maggior parte degli istituti tecnici, di tutti gli istituti professionali e dei centri di formazione professionale regionale. Dovrebbero (nelle intenzioni e nella realtà) costituire due itinerari della medesima forza quantitativa, della medesima qualità culturale, della medesima dignità sociale e del medesimo successo educativo. La terza attenzione è per la «dosatura» sapiente dei piani di studio, tra i due percorsi e tra gli indirizzi di ciascuno di essi (aventi una diversa proporzione oraria delle discipline tecnico-professionalizzanti rispetto a quelle letterario-linguistiche, storico-antropologiche, matematico-scientifiche) e per una diversa composizione degli obiettivi e dei contenuti di ciascuna disciplina «curvata» sulla natura e sulle esigenze dei due «canali» e di ogni corso dei medesimi. La quarta attenzione è per la «realizzazione del campus» quale apparato di beni materiali opportunamente predisposti e di operatori con ruoli formalizzati messi in una corrispondenza attiva per il conseguimento di determinate mete. L'impianto del campus, munito di equilibrio, di coerenza e di scambio (il cui ordinamento conserva le caratteristiche della territorialità, della polifunzionalità, dell'affinità e della sinergia), è destinato a diventare un ambiente cooperativo in cui si prendono decisioni, si svolgono attività e si compiono adeguamenti indirizzati a motivare il diverso assunto teorico che fonda il sistema educativo; a potenziare la forza del secondo «canale» dandogli la stessa autorevolezza e lo stesso prestigio del primo; ad agevolare i passaggi interni al campus (in quanto esso si dovrebbe applicare solo nel secondo «canale») ed esterni tra i due «canali»; a rendere effettiva la flessibilità dell'intera istituzione di istruzione e di formazione.
      La rivisitazione e, per certi aspetti, la radicale innovazione che si propone per il sistema educativo deve poter contare sul contributo determinante della comunità educativa (dirigenti, docenti, personale tecnico e ausiliario, alunni e genitori) che, dialogando sulla qualità delle istituzioni destinate all'istruzione e alla formazione, suscita una presa di coscienza migliore dei problemi e delle soluzioni, e della comunità civile che, sollecitando il rinnovamento, chiede che la politica assuma le proprie responsabilità circa la direzione da seguire, i fondamenti da porre, le linee da rispettare, la regolazione da assicurare; direzione, fondamenti, linee, regolazione che sono stati raccolti nel progetto e che sono riportati nella presente proposta di legge; una proposta di legge simile alla «legge di orientamento» varata in Francia che può diventare la base per un confronto generale, sui princìpi essenziali, nei due rami del Parlamento, e, se si riterrà opportuno, può essere trasformata in una soluzione condivisa da un'ampia maggioranza.
 

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